A Samarcanda l’aeroporto è anche un pascolo: mentre atterrate, capre e pastori scappano da tutte le parti. La sala d’attesa è un frutteto pieno di meli ricoperti di fiori rosa. Si sente tutt’intorno un profumo dolce e un po’ amaro che stordisce, sembra di avere in bocca un frutto. In terra i petali dei fiori formano un tappeto leggero, rosa e bianco. Se lo pesti, sparisce.
Dopo Mosca, entrare in Uzbekistan è come passare dal bianco e nero al technicolor. Il blu, soprattutto, e l’azzurro, il turchese, il ceruleo, il colore delle genziane, dei fiordalisi, delle pervinche e dei non ti scordar di me. Tutte le moschee e le madrase sono rivestite di piastrelle di maiolica che formano disegni labirintici, si ripetono all’infinito: blu, azzurro, celeste, dappertutto.
Le persone che si incontrano per strada sono sempre in gruppi sorridenti: sembrano in gita. In genere sono ragazze, vestite con stoffe variopinte che sembrano fatte con le ali delle farfalle. Hanno grandi occhi scuri e capelli neri raccolti in treccine che sfiorano terra. Quando camminano o si voltano, le treccine ondeggiano e i movimenti diventano una danza.
In Uzbekistan il sapone dell’albergo sa di fragole. È rosa. Quando ti lavi le mani e il viso sembra di lavarsi con una fragola. Cerchi di farti comprare quel sapone, ma la vostra guida ritorna con un cestino di fragole.