Las Vegas è un’isola di luce nel deserto nero.
Las Vegas galleggia nel tempo.
Prima di entrare in albergo camminate per un pezzo di Strip illuminata a giorno: sbattete contro gente che porge volantini per passaggi in auto; ragazze-poliziotto offrono “servizi di accompagnamento”; ovunque lampeggiano insegne con i nomi di ristoranti, locali, concerti e spettacoli.
L’albergo-casinò dove dormite ha l’aspetto di un castello medievale, con torri merlate con punte temperate come matite blu e arancioni, portali con archi a tutto sesto e fossato intorno. Sull’ingresso brilla la scritta “Excalibur” in rosso. Quando arrivate il sole è tramontato e la piramide del Luxor sta già sparando un fascio di luce dalla sua cima fino alle stelle, come per sfidare il cielo. L’ingresso dell’albergo è lo stesso del casinò: dentro ci sono il puzzo di fumo scoreggiato e il rumore dei giochi. Per terra, una moquette bordeaux con una fantasia di foglie. Uno stuolo di slot che parlano e suonano contemporaneamente sputando nastri di bigliettini come quelli dei luna park. Niente monete. I camerieri si muovono veloci tra i tavoli con vassoi di drink per i giocatori e senza perder tempo chiedono l’ordinazione anche a voi che state trascinando i trolley cercando la reception.
La trovate in fondo, con sette receptionist pronte a rispondere immediatamente a ogni domanda. In fila, un gruppo di harleysti sulla cinquantina e delle signore giapponesi.
Prendete l’ascensore: otto piani in dieci secondi.
La camera ha le finestre che danno su un cortile interno, si vedono in basso dei cassonetti e in alto le torri merlate dell’ingresso. Andate nel corridoio, salite ancora, ma a piedi, svoltate e passate davanti alle suite del piano di lusso, ma dopo un po’ capite che dentro alle torri non ci si può entrare. Non sai più quanto tempo è passato.
Mangiate al piano terra a un fast food anni cinquanta con pavimento di mattonelle bianche e nere, poi cercate il tavolo del black jack. Non avete contanti. Il bancomat all’interno, vicino alle casse, prende una commissione di otto dollari. Il black jack dura pochi istanti, il tempo di chiedere due carte e perdere tutto: la croupier dai capelli biondo rame vi guarda sbattendo gli occhi, dicendo semplicemente: «I’m sorry». Poi con un unico gesto rimescola e mette a posto, pronta per la prossima mano.
Il gioco dei dadi dura un po’ di più, e i croupier vi spiegano come si fa. Dopo un po’ ve ne andate sopra di cinque dollari.
«Che ore saranno?».