
Alla dogana ti fanno compilare un foglietto azzurro con tutti i tuoi dati. Vogliono sapere come ti chiami, da dove vieni, il cognome di tua madre da nubile. Ti chiedono se trasporti cibo, armi, denaro. Se hai mai fabbricato esplosivi, se hai precedenti per violenza sessuale, da che malattie sei affetto. Tutti rispondete nello stesso modo. Siete tutti innocenti, sulla carta. File di led rossi compongono la scritta “Welcome to the United States of America” pochi metri al di là dei gabbiotti dove gli agenti analizzano le vostre vite.
Ti fanno guardare in una telecamera, se hai gli occhiali vogliono che tu li tolga. Guardano la foto del tuo passaporto, poi il volto inquadrato in un monitor. Non ti guardano in faccia mentre ti chiedono quanto resterai nella loro terra e perché. Ti chiedono che lavoro fai, si incazzano se gli fai notare che l’hai già scritto nel foglietto. Devi rispondere e basta. Ti chiedono se hai preso le ferie, se sei in vacanza, se sei disoccupato. Chi ti ha pagato il viaggio. Chi sei venuto a trovare. Quando tornerai a casa. Se hai mai costruito una bomba. La domanda ti fa ridere tanto è assurda, ti ha fatto ridere anche prima mentre la leggevi nel foglietto, ma ora non puoi ridere. Non c’è niente da scherzare. Non hai mai costruito bombe, no. Non hai mai violentato nessuno. Non trasporti ovuli pieni di cocaina nel culo. Non hai una rana toro australiana nello zaino. E comunque vieni giudicato: la tua normalità messa a nudo non è così normale.
Poi finisce e sei libero di passare, di rimettere gli occhiali, di oltrepassare la scritta rossa e recuperare il bagaglio coi tuoi vestiti.