
«Ci siamo» dice Omar sedendosi nel pozzetto. Il suo lavoro lo ha reso molto abbronzato. Con una mano tiene la scotta, con l’altra dà una pacca a White, la vostra barca.
«Federica fa’ come ti ho insegnato, lasca un po’ la randa. E poi possiamo riposarci un po’».
La luce si spegne all’orizzonte. Proseguite a una velocità perfetta; lo stesso vento che vi accarezza la pelle riempie le vele senza sforzarle troppo, e vi accompagna lungo la rotta. Ti siedi asciugandoti il sudore sulla fronte. Siete partiti nel pomeriggio, e già la terra è sparita. Le altre nove barche a vela della flottiglia sono ben allineate a White e cominciano ad accendere le luci. Le guardi una per una, fino all’ultima, piccola, lontana.
Ormai è buio. Ti distendi: l’albero termina con un punto luminoso che balla fendendo il cielo e la via lattea (la vedi per la prima volta quella notte). Ti vengono le vertigini.
«Non capiterà più» dice la voce di Federica.
Rilassi i muscoli e fai un respiro profondo. La tua schiena viene attraversata da un brivido fortissimo: ti chiedi come sia possibile sentire allo stesso tempo paura e meraviglia.
Adesso, nella cabina, sei in un limbo fra l’acqua e il cielo stellato. Viaggi sulla barca di Ulisse, stordita dal canto delle sirene, punti l’Orsa Maggiore per tornare a Itaca (non deve mancare molto), vedi le costellazioni: l’auriga, con una pelliccia sulle spalle e il volto deformato dalle urla, incita i cavalli alati; il drago con le squame luccicanti e le ali che lo fanno planare a destra, a sinistra, su e giù; il cigno che si specchia in un lago curvando il collo.
«Gettiamo l’ancora!». Ti sveglia il grido di Omar.
C’è un turchese indefinito fuori dall’oblò. Esci. Vedi l’ancora sul fondale basso, vicino a un mucchio di alghe. Un banco di piccoli pesci neri sta attraversando l’acqua accanto allo scafo. Ti guardi intorno: tutta la flottiglia ha ormeggiato lì; il mare è una distesa di diamanti azzurri.